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Naddei: l’evoluzione di “Mostri”


Si evolve quel breve Ep dal titolo “Mostri”. Prende altre forme, di completezza e di ricchezza, di tante nuove canzoni. Diventa un disco vero e proprio sempre e solo disponibile nei circuiti digitale. Franco Naddei è l’artista e l’uomo che vive all’ombra e alla luce di questi “Mostri”, maestri eterni, grandi scritture, celebri successi del passato remoto e recente. Un disco in cui il producer e musicista li rivede, li veste di suo, li “digitalizza” con suoni e ritmi inaspettati, dalle caverne dell’io ad una energia che probabilmente non avremmo mai pensato ci fosse. Artisti come Battiato, Tenco, De André, Skiantos… tanti altri… tante grandi firme per un disco omaggio alla sua personalissima visione del suono e della canzone. Un disco che è identità privata di Franco Naddei.

Finalmente quel progetto iniziale ora ha preso un corpo grande. Subito ti lancio una mia impressione: penso che “Mostri” potrebbe essere per te un never ending album. O sbaglio?
Guarda, per deformazione professionale di produttore artistico mi diverto sempre molto a mettere mano alle canzoni altrui per cui in realtà quella voglia probabilmente la sfogherò nelle prossime produzioni che farò.
È chiaro che la tentazione sarebbe forte ma devo trovare il coraggio di produrre materiale originale, ne avrei voglia e necessità. “Mostri” mi è servito proprio per fare un pò di ricerca in quel repertorio autorevole della nostra canzone italiana che ho sempre sottovalutato per molti motivi. Uno tra tutti potrebbe essere stato proprio l’impianto sonoro che spesso mi ha distratto dall’apprezzare la scrittura nuda e cruda. E allora ho deciso di cercare un’altra veste a quel mondo che sapeva raccontare così bene della vita, dell’amore, delle emozioni che si provano e vedono nella realtà. Volevo capire se quelle canzoni potessero toccarmi dentro di più, ho un pò osato ma devo dire che mi sembra che l’esperimento sia riuscito. Io stavo proprio cercando di capire quale fosse il mio suono, prima ancora di quello che avevo da dire con le parole.
Il suono l’ho capito, ora devo trovare le parole, o meglio sceglierle bene o malissimo a seconda di come la intendi.

Ma su tutti c’è un “mostro” principale? C’è il primo tassello da cui sei partito?
È curioso che spesso torni questa domanda, e devo dire che forse ho lasciato degli indizi nel disco, perché credo sia quasi evidente che sia partito tutto da Tenco. Il personaggio in se mi ha sempre affascinato per il suo modo così schivo e nudo allo stesso tempo. Nelle note al suo pezzo (“Io sono uno”) l’ho definito come uno stronzo romantico, schivo, riflessivo, provocatore ma anche uno che sapeva come raccontare l’amore. Diciamo che è il cantautore in cui trovo quella sana assenza di poesia che sa raccontare la vita come è, drammaticamente semplice sia nelle sue sfumature dolorose che nelle sue gioie straripanti.
E così in “Io sono uno” non fa altro che descriversi con una sincerità quasi infantile che spero mi contagi. La più grande lezione che puoi imparare da questi mostri del cantautorato è proprio quella di non fare sconti innanzitutto verso se stessi e di conseguenza nel modo in cui vedi il mondo intorno a te. Per cui ho fatto del suo manifesto il mio, e devo dire che in quel testo mi ci rivedo proprio.

Altra mia impressione è che questo sia un disco fatto per te stesso… un disco personale dove canti l’uomo che sei e l’artista che sei diventato. Non canti per noi altri. Noi siamo solo meri spettatori… o sbaglio?
Sicuramente nasce da una mia personale esigenza, ma credo che sia la storia di tutti i dischi dei “cantautori”. È diventato un disco personale durante la sua lavorazione dato che mi sono accorto che avevo scelto dei brani che mi riguardavano direttamente, che avevano a che fare con me. E trovo sia molto curioso anche il fatto che appaia come un disco “personale” dato che si tratta di cover. Questa tua domanda mi rende felice perché credo si sia capita proprio l’esigenza di farsi spogliare e mettersi a nudo con parole scritte da altri come fossero tue.
Quindi, ragionando con te, posso immaginare di aver fatto una specie di colonna sonora per un film i cui spettatori non sanno se stanno guardando me o loro stessi. E questo è interessante.
Ho scelto di cantare in maniera molto suadente e diretta, quasi da crooner, sfruttando il mio registro basso da fumatore incallito e cantando molto vicino al microfono proprio per immaginarmi molto vicino alle orecchie di chi avrebbe ascoltato il disco. Questo mette a nudo tutte le inflessioni della voce che possono tradire quello che sei e hai dentro.
Quello che sono, uomo o artista o semplice osservatore di anime, spero sia qualcosa che questi spettatori di cui parli abbiano voglia di trovare dentro “Mostri”.

L’aspetto grafico del disco non è da meno. Sbaglio o ci sono anche tavole riferite proprio ai “mostri” e alle canzoni?
L’aspetto grafico per me è sempre l’anello debole perché non riesco proprio a pensarci per tempo e con l’autorevolezza che vorrei avere in materia ma spesso mi lascio aiutare da chi ha più sensibilità di me sull’aspetto grafico.
“Mostri” doveva essere un disco fatto per gioco, un esperimento e non pensavo nemmeno di fargli avere una vita come la sta avendo ora, seppur digitale. Ma un giorno, mentre pensavo all’inevitabile esigenza di avere una copertina, ho ritrovato un vecchio disegno di mio figlio che sembrava fatto apposta e dato che il caso non esiste non ho fatto altro che notare fosse la copertina perfetta del disco. Oltretutto la scritta “Mostri” è stata scritta proprio nel disegno originale che è stato solo ritagliato. Non so se mio figlio l’ha capito ma mi ha fatto un gran bel regalo e sono davvero felice che la copertina sia sua. Una prima cosa fatta insieme.
Dato il titolo del disco, che si poteva prestare a molteplici interpretazioni, sia esistenzialiste che filosofiche, l’idea di semplificare totalmente l’immagine del mostro, renderlo innocuo mi è piaciuta molto.
Se ci avessi provato io sarebbe venuta una schifezza!



Anche il suono elettronico e così scuro. Un disco solipsistico anche sotto questo punto di vista secondo me…
La mia lotta nel rendere il fare elettronica un’esperienza fisica e se vogliamo punk, come suonare la chitarra in uno stadio pieno, dura da ormai alcune decadi. Capisco che il suono sintetico appaia  spesso come qualcosa che crea una distanza, come se uno volesse fare un pò lo snob. Con Francobeat, la mia precedente incarnazione, ho sempre tentato di starne lontano e di ragionare più sui concetti degli album che sul suono generale. Infatti erano dischi che non potevo definire con un genere perché ce n’erano tanti, forse troppi.
Per cui ho scelto deliberatamente di vedere cosa sarebbe successo se mi fossi buttato istintivamente solo sul linguaggio delle macchine che uso, e sono tutte analogiche. Pensa che quasi tutti i pezzi sono stati prima suonati e cantati contemporaneamente proprio per non sfruttare le scorciatoie compositive del computer che ti fa solo perdere la concentrazione e ti distoglie da quello che stai cercando.
Per fortuna, o mio malgrado, sono talmente tanti anni che uso l’elettronica che quando ho in testa qualcosa so come trovarla, e in fretta, perché mi piace agire d’impulso come quando imbracci la chitarra e sai che farai gli accordi che avevi in mente.
Probabilmente questo esercizio di sincerità compositiva devo esplorarlo ancora e sarà più interessante, e difficile, farlo con canzoni originali.
Dopo due domande in cui mi fai notare come in qualche modo non risulto aperto al pubblico evidentemente devo lavorare proprio su questo dato che “Mostri” è stata la mia massima apertura negli ultimi 20 anni di carriera! E credo di aver riversato una buona dose di sincerità nel modo in cui ho rielaborato questi “mostri”. In fondo non sono famoso per essere così aperto e solare, musicalmente parlando, ed è giusto che questo si rifletta sul mio modo di fare musica.
L’intento era quello di aprirsi ancora di più, prometto che ci lavorerò su (che bella assonanza a fine risposta).

Dal vivo? Come e in che modo lo presenti?
Dal vivo giro sia da solo che accompagnato da amici musicisti. Finora ho avuto l’onore di avere con me il sassofonista e polistrumentista Gianni Perinelli e l’infaticabile batterista Marco Frattini.
Tutto il disco è stato pensato per essere un live coinvolgente che potesse anche far ballare. Devo necessariamente andare anche in solo ma la dimensione del live è sempre diversa anche quando uso il computer. Dovendo cantare e suonare ho necessariamente bisogno di un aiutino, ma diciamo che mi diverto a far sbagliare le macchine per riuscire a ricreare quella condizione di fragilità che rende un live emozionante sia per chi lo sta suonando sia per chi lo sta ascoltando e possibilmente ballando. Sono molti i brani dove il concetto di “cantautorave” diventa reale e lì è il momento in cui mi diverto di più. L’idea che si possa ballare su Tenco, Conte, De Andrè, così come CCCP e Skiantos è meravigliosa. Spesso, soprattutto i più giovani, mi chiedono se ho suonato pezzi miei e mi diverte raccontargli cosa ho effettivamente suonato. Anche i più attempati non sempre riconoscono gli originali, per quanto la scaletta del disco non comprenda brani così poco noti, ed è sempre bello notare lo stupore di come venga recepito un live del genere. Io non mi sottraggo, sudo, ballo, canto tiro fuori tutti quei mostri che proprio grazie a queste belle canzoni sono riuscito a buttare fuori in maniera sana, divertita e divertente.
Insomma, appena passerà questa assurda bufera, spero proprio di ricominciare a ballare sui palchi!