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Diana Tejera: la libertà è tutto per questo disco


Si intitola “Libre” il nuovo lavoro di Diana Tejera che da subito dichiara quanto necessario risulta soddisfare quel bisogno di sentirsi liberi nella scrittura… una libertà che investe la forma ma anche la lirica pensando a questo tempo assurdo che alla libertà ha contrapposto il distanziamento e i divieti. Disco in inglese, spagnolo e francese, ricami di pop, di musica popolare, di organze digitali… polistrumentista a tutto tondo, sperimentazione nel suono e nelle intenzioni… e tanta inevitabile libertà che si sente tutta, nonostante poi le regole dell’arte siano sempre le stesse…
 
Libertà come inno di questo disco che non vuole neanche una lingua sola, un genere soltanto… insomma libertà significa anche tante personalità diverse?
Sicuramente libertà significa dare voce ai tanti desideri nonché alle varie personalità che ci abitano, l’importante è essere un buon direttore d’orchestra che le faccia convivere armoniosamente. In questo lavoro ho cercato di non censurarmi, di non obbedire a delle convenzioni ed è così che è uscito fuori un disco istintivo e multilingue.
 
Del suono di “Libre” che ci dici? Dove hai raccolto l’ispirazione?
Il suono è nato dal desiderio di allontanarmi un po’ dal cantautorato classico, di provare a prediligere strumenti elettronici a quelli acustici per vedere dove mi portavano. È stato di grande ispirazione un synth reface cs che mi hanno regalato; ha aperto la mia immaginazione con milioni di suoni “spaziali” nei quali mi sono persa gioiosamente.
La canzone “libre” per esempio era nata chitarra acustica e voce... ma cercavo qualcosa di diverso, volevo uscire dalla mia zona di comfort. Così ho eliminato l’acustica, e ho iniziato a sperimentare sulla melodia, a creare cori, un tappeto di suoni di synth, dei riff di chitarra elettrica, un basso distorto e una ritmica incalzante. La parte più difficile è stata poi lavorare per sottrazione... avevo riempito troppo il brano e rischiava di rimanere soffocato dai suoni. C’era bisogno di un po’ di aria, di lasciare solo ciò che era veramente necessario.
 
Che poi è tutta farina del tuo sacco oppure dobbiamo citare qualcun altro alla produzione?
La produzione è quasi interamente mia (9 brani su 11) poiché ho lavorato soprattutto durante il lockdown. 2 brani (“all that you see” e “volvere’”) sono stati prodotti da Andrea Di Cesare (violinista e produttore che stimo molto e con cui collaboro da quasi 20 anni).
 
Cosa ha significato per scrivere canzoni durante il lockdown? Quanta salvezza porta con sé questo disco?
È stata sicuramente un’ottima valvola di sfogo. Devo ammettere di aver vissuto il lockdown in modo sereno; proprio quello spazio dilatato senza pressioni mi ha permesso di scrivere in piena libertà. Di certo avevo il privilegio di avere la musica: un luogo costruttivo dove poter concentrare i pensieri, i timori e le incertezze di quel periodo e di questo momento storico.
 
A chiudere finalmente si torna a suonare dal vivo… questo disco che storia racconterà? Hai trovato anche una forma per dargli voce da sola o ti lascerai accompagnare da una band?
Racconterà la storia della resistenza, dell’arte come terapia, come motore per andare avanti. Ho già portato il disco un po’ in giro per l’Italia e non vedo l’ora di continuare a farlo. Oltre alla formazione completa con la band ho trovato altre 2 formazioni in cui sento che il disco esce fuori bene live: in duo con Giampaolo Scatozza alla batteria elettronica e da sola con l’aiuto della loop, del synth, della chitarra elettrica e di una drum machine. A Febbraio porterò “Libre” live negli Stati Uniti.