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Zero Portrait: l’urbe di vera energia umana


Esordio ufficiale per il producer Zero Portrait: un lavoro dal titolo “Pulp” disponibile anche in vinile fatto di composizioni strumentali “socialmente schierate”, native dell’era digitale e di quel concetto assai romantico, ma allo stesso tempo anche assai “vintage”, che è la periferia. “Pulp” inteso come polpa, anche come sostanza… ma anche come verità. Ed è dentro le righe della vita di quartiere, di periferia come di confine, che secondo l’artista romano, si concentrano le risorse prime che spingono l’uomo verso le sue grandi energie creative. Unico brano cantato è “Fauna” guidato dalla voce di Agronomist. Un Ep interessante, che danza in equilibrio tra suono beat metropolitano e ancestrali coralità che hanno un retrogusto africano…

Partiamo da questa immagine di copertina. Acida, lisergica, visionaria… ce la racconti?
L’idea della copertina viene dal fotografo Matteo Bellomo, lui cura l’aspetto grafico della label per la quale è uscito il mio EP. Ho esposto la mia necessità di esprimere una realtà sulfurea e “acida” come nella letteratura Pulp e proveniente da un certo tipo di cultura anni ’70 molto simbolica senza eccessive chiarificazioni. Ci sono molti contrasti netti tra giallo e nero, tra la luce e il buio, tra centro e periferia.
Molti non l’hanno capita, forse non la capiranno, ma meglio così, non c’è bisogno di rassicurare nessuno.

Il cuore, l’energia dell’individuo, per te, nasce dalle trame urbane, dalla periferia e non dal centro. Giusto?
Il centro è la parte espositiva, il nostro biglietto da visita, le periferie sono le cose che di noi vogliamo tenere più nascoste, sono i laboratori, al centro arriva chi riesce a lavorare bene in disparte. L’una senza l’altra non riuscirebbe ad esistere. La maggior parte della popolazione si sta muovendo nei centri urbani e le città divorano porzioni di territorio sempre più grandi e porzioni di umanità, per cui il disco parla della vita, nata e consumata tra palazzi e metropolitane.

Dunque nel centro dove ci sono i grandi palazzi, accadono le grandi decisioni… cosa pensi che accada all’individuo?
 Il timore che sento è che se il centro un tempo rappresentava il “salotto” della città, da 40 anni a questa parte il mercato globale e le alte interconnessioni influenzano questo processo per cui tutto diviene “centralizzato” sotto le influenze più europee, il che è fantastico, solo che ha portato ad un innalzamento di barriere invalicabili tra centro e periferia. Non si dialoga più e le aree limitrofe al centro diventano aree da “bonificare” spingendo la gente a muoversi verso fuori, è un processo che all’attuale è inarrestabile è che ha degli effetti sulla percezione dell’ambiente, visto come ostile, richiedente e alla ricerca della performance. Ritengo che le situazioni presenti nelle borgate dell’hinterland di Roma siano più vicini ad esempio alle situazioni delle banlieau parigine che al centro stesso di Roma. Io, trasferitomi a Roma e vivendoci da anni parlo di quello che vivo, parlo della città che ci cambia e che ci rende uniti per forza ma con la paura dell’altro.

Tutto questo, nel suono di questo primo lavoro, dove trova conferma? In altre parole come hai scelto i suoni?
Ritengo che alcuni processi di ricerca nella musica si siano fermati agli anni ’90, infatti molti mi hanno detto che il mio disco è molto 90s. Dopo quel periodo si sono fermati alcuni processi di curiosità e tutto è diventato progressivamente molto standardizzato. In realtà credo che già negli anni ’80 la creatività in generale iniziava a risentire dell’esigenza di mercato di dare al pubblico quello che voleva, solo che fino agli anni ’90 il “centro” e la “periferia” comunicavano, adesso il mercato è vasto e l’unico modo per rimanere a galla è usare dei pattern precisi per “emergere”. Di musica eccezionale adesso ce n’è tantissima, ma è rilegata a piccole nicchie autoreferenziali. Io volevo poter emergere in “centro” parlando di “periferie” mentali, ripartire dalla ricerca, ma non voglio parlare rifarmi a quello che accadeva negli anni’90, ero troppo piccolo in quegli anni per raccontarli, e poi che senso avrebbe e nel 2020 a chi importa?
Vorrei riallacciarmi al momento in cui la ricerca ha smesso di essere importante ma poter percorre la mia strada personale continuando a maturare e ad incuriosirmi. Questo, secondo me, fa la differenza tra un disco di uno specifico tempo ed un disco senza tempo.

E in generale: hai inseguito i messaggi attraverso i suoni o hai composto con l’istinto e l’improvvisazione recuperando in seguito, a lavoro finito, le visioni che arrivavano da quanto scritto?
Il mio processo creativo è a due tempi, quelli del centro e della periferia, quest’ultimi sono tempi molto veloci, intuitivi, istintuali. Poi arriva la fase di presentazione dell’idea al “centro” ed i tempi diventano estenuanti e lunghi, per rendere un messaggio in un brano ho bisogno di tante stesure e tempi che prevedono anche tanti mesi.