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Andrea Cavina: “10 Lettere”, 10 brani, 10 pensieri di chitarra


Si intitola “10 Lettere” il disco d’esordio del chitarrista e compositore Andrea Cavina. Un lavoro umile, sincero, mai perfetto e rigido ma assai umano e assai colorato di fragilità che poi penso sia il grande valore aggiunto che arriva da un dialogo che mi resta difficile codificare in altri modi, vista l’abitudine che abbiamo di vivere in un mondo fatto di pop e di canzone. Qui il suono è di sola chitarra classica, qui il dialogo è solo di un uomo che guarda 10 grandi uomini della sua vita, della sua ispirazione, dell’arte e della cultura della nostra grande tradizione. Da Pat Metheny a Vincent Van Gogh, ma anche citazione più elevate e dedicate ai palati fini come Maurizio Colonna, Andrew York o Joe Hisaishi. Ma qui il nome è di una rilevanza marginale: qui è la chitarra che decanta l’impressione, la visione, le sensazioni. Tutto questo poi diviene altro nell’ascolto che vi consigliamo di fare con dedizione e immersione ma mai senza rigidità e quell’atteggiamento “pop” che abbiamo nei confronti della musica “programmata”. 


Dopo anni di musica arriviamo a parlare di un disco d’esordio. Ci incuriosisce come a tanti questo aspetto. Perché proprio ora, perché solo ora?
Ci ho messo tanto per comporre questo mio primo album, è vero. Ma credo che non esistano tempi più o meno idonei per la composizione. Ho avuto diverse esperienze sia lavorative, sia accademiche.
Diversi anni fa ho avuto un'esperienza al contempo bella e “feroce” nel mondo della cosiddetta “musica suonata”. Ho girato per mezza Italia suonando rock’n’roll con Alessandro Ristori nei pub, nelle balere, in TV, nei teatri, nelle piazze e nelle sagre.
Nel frattempo mi sono diplomato al conservatorio. Rovigo e poi Ferrara, giusto per dare un po’ di notizie ufficiali. Poi ho tirato il freno a mano e ho iniziato a lavorare come insegnante.
Mi scuso e forse non interesserà a nessuno la storia della mia vita, ma è la premessa necessaria per dire che ad un certo punto ho avvertito il bisogno di riprendere un discorso che avevo interrotto solo in superficie. Però questa volta non potevo fare finta di avere vent’anni, tutto il tempo a disposizione e progetti alla “si vedrà”. Ho fatto i conti con chi sono ora e con quello che mi sarebbe bastato per fare qualcosa che mi avrebbe soddisfatto.
Ho abbandonato i doveri (repertori, manuali di composizione, disquisizioni fini a sé stesse, prassi esecutive, ecc…) e mi sono concentrato solo su quello che mi faceva stare bene.
Un po’ come canta Caparezza. Ho raccolto tutto ciò che mi dà gusto o me ne aveva dato in passato e ho lasciato andare le idee. Ho provato a viaggiare leggero, ma con rigore e determinazione.
Ha funzionato.

Oggi non scriviamo più lettere. C’è una bellissima immagine dietro questo titolo. Cosa rappresentano per te le lettere?
Grazie, mi fa molto piacere. È vero che c’è una bellissima immagine dietro, ma credevo che lo fosse più un’impressione personale e invece sono felice dei consensi che sta ricevendo questo titolo, oltre alla curiosità che suscita. Ora non voglio fare la parte del nostalgico, perché come tutti uso Whatsapp, Facebook e Spotify, ma la lettera è un mezzo di comunicazione che ha un peso.
Si tocca. Rimane. Per questo motivo, quando si scrive (e io ne ho scritte abbastanza) bisogna fare attenzione. C’è un rito dietro. C’è la malacopia (oggi diremmo “bozza”), l’attenzione al contenuto e soprattutto al modo di esprimerlo.
Si deve avere un certo rispetto per la persona a cui si invia. Ci sono tempi di attesa per la spedizione, ma soprattutto per la ricezione della risposta. Tutte azioni a cui oggi non siamo più abituati: ci viene il nervoso se vediamo la doppia spunta blu e non riceviamo immediatamente quello che vorremmo sentirci dire. E chi interagisce con noi non è più nemmeno libero/a di decidere se rispondere o meno e con i suoi tempi. Battiato scriveva “ti porterò soprattutto il silenzio e la pazienza”. Ecco, una lettera è silenziosa e richiede pazienza. Sono valori importanti, da conservare.
Ho pensato di dare questo titolo al disco per diversi motivi, tra cui quello sopra descritto.
E poi la lettera “fisicamente viaggia”. Fa un percorso: parte e arriva. Si fa trasportare, attraversa paesi. Prima di arrivare si ferma negli “hub”, viene smistata… insomma, è un oggetto che se potesse, racconterebbe ancora di più di quello che c’è scritto.
Con le lettere inoltre ho voluto giocare sul concetto di “corrispondenza” intesa sia come azione legata allo scambio epistolare, sia al significato stesso del termine, ovvero l’affinità tra le musiche dei compositori “destinatari” e il mio modo di scrivere che “corrisponde” in una certa misura, al loro.
Così come vorrebbe corrispondere anche l'idea di ricerca e di realizzazione di qualcosa di nuovo da poter “dire” attraverso uno strumento dalle origini antiche.

Un disco di sola chitarra classica. Decisamente anacronistico. Non hai sentito mai il bisogno di altri attori in questa scena?
Da un punto di vista tradizionale il disco può essere visto come anacronistico, ma se si abbandona il pregiudizio sulla parola “classica” e si guarda la chitarra come un mezzo per veicolare musica, come ad esempio il pianoforte di Ludovico Einaudi, allora la prospettiva (forse) cambia.
Credo, piuttosto, che questo sia un disco totalmente contro corrente.
Primo perché é libero, per cui, a parte i consigli di Maurizio Colonna, che non finirò mai di ringraziare, non ho avuto vincoli né artistici, né contrattuali. Secondo, perché “non è un disco di chitarra classica”. Questo lavoro mira a dialogare con i pianisti, con i compositori di colonne sonore, con la sonorizzazione di ambienti, con i cultori del rock o di un certo tipo di pop… Non si esaurisce con una definizione strettamente strumentale. Non è stato concepito in quell'ottica.
Altrimenti ci sarebbe stato bisogno di una superstar della chitarra, cosa che io non sono.
Pur nascendo da quelle radici, il mio album vuole andare oltre il repertorio tradizionale, nel senso che si nutre di sonorità e architetture compositive semplici, destinate ad un pubblico ampio ed eterogeneo. Ho svolto questo lavoro “in solitaria” e mentre scrivevo mi sono sentito un po’ come Giovanni Soldini in mezzo all’oceano. È stato bellissimo, a volte molto difficile, ma ho fatto esattamente quello che volevo. Ho scelto le vie, ho rallentato quando era necessario, ho insistito, ho perduto tempo sui passaggi impegnativi, ho rivisto alcune decisioni che per mesi sembravano assodate e ho dovuto riprendere alcune battute o, peggio, diteggiature anche a ridosso della registrazione. No, non ho sentito l’esigenza di altri attori. Tutt’altro: ho avuto proprio la necessità di essere da solo. Come Van Gogh, O’Carolan o altri a cui ho scritto.

E come ti rapporti al resto del mondo pop italiano dentro cui certi dischi, certi suoni restano ancora troppo confinati in una nicchia piccolissima?
Ho provato ad ascoltare una playlist di brani pop di Spotify in cui è inserito un mio brano, “Estate”, dedicato a Joe Hisaishi. Scorreva.
Sono rimasto colpito dalla naturalezza con cui si passava da una canzone al mio brano chitarristico senza “buche”. Ecco, ho trovato la cosa molto interessante, oltre che molto piacevole. Lo so che forse si potrebbe storcere il naso, ma ho seguito un’intervista di Roberto Cacciapaglia in cui lui per primo dichiarava di non fare distinzione tra i mondi musicali, la classica, il pop, il rock… per lui sono mondi che non hanno barriere e per me è la stessa cosa. Molti musicisti in realtà la pensano allo stesso modo. La mia è solo una proposta. Credo, tuttavia, che il bello di un disco del genere sia proprio il superamento di certe barriere. Dialoga. Dialoga, ma è ben consapevole del “rumore” che c’è in giro.

E se, ad esempio, un DJ, o un produttore, volesse utilizzare un mio brano per un suo progetto?
E se invece di un produttore musicale fosse un regista? Tra i brani che ho scritto ce n’è uno, “Vento nella foresta”, che piace ai cultori del metal (tra l’altro il destinatario è proprio Cacciapaglia che ho appena citato). Perché non farne una cover ancora più “dura” rispetto all’originale?
Ecco, penso che il rapporto con il mondo del “pop” italiano possa essere visto come una possibilità di dialogo, di scambio, dove ci sia posto anche per la chitarra classica, dopo il pianoforte di Allevi o Einaudi.

Un video ufficiale?
In diversi mi ponete questa domanda e penso che “abbiate tutti ragione”.
Ci sono diverse idee, proprio perché la mia musica è nata quasi più “per immagini” che per regole compositive. Io ho bene in mente cosa voglio comunicare con certi brani e già nei primi concerti di presentazione dal pubblico mi è arrivato come feedback il fatto di aver suscitato immagini negli stessi ascoltatori. Il primo sforzo, tuttavia, è stato incentrato sulla realizzazione e sull’uscita del disco.
So bene che un video ufficiale è importante. Arriverà, ma in questo caso non è detto che i tempi e le modalità siano quelli “standard”.