“Di estate non si muore” è una fotografia tagliente della tua terra. Come nasce questo brano?
Nasce da una contraddizione. Da quella luce accecante dell’estate siciliana che spesso nasconde l’immobilismo, la rassegnazione, le ferite non curate.
È un brano che racconta la bellezza e l’inganno, l’odore del mare e la sensazione che, dietro ogni cartolina, ci sia una storia sospesa.
L’ho scritto osservando la mia terra con occhi innamorati ma lucidi, come si guarda qualcuno che si ama davvero: senza più idealizzarlo.
Perché anche d’estate, anche sotto il sole, si può morire dentro. Ma nessuno lo dice.
Che rapporto hai oggi con la Sicilia, come artista e come essere umano?
È un rapporto viscerale. Di amore e rabbia, di nostalgia e radicamento.
La Sicilia mi ha dato la voce, il silenzio, la memoria. È la mia ferita e la mia cura.
Come artista, è la sorgente da cui traggo immagini, suoni, contrasti. Come essere umano, è il luogo dove continuo a cercare un senso, una casa, un’appartenenza.
Ma spesso mi sento in bilico tra il restare e il fuggire, tra l’abbraccio e la delusione. È una madre che a volte non sa ascoltarti, ma resta sempre madre.
Hai paura che l’immobilismo che racconti nel disco possa diventare una condizione collettiva?
Sì, ne ho paura. Ma è già accaduto, in parte.
C’è una stanchezza diffusa, una rassegnazione silenziosa che anestetizza le coscienze.
Lo vedo nelle piazze vuote, nei giovani che non si sentono ascoltati, nei diritti che diventano privilegi.
Il mio disco prova a scuotere quel torpore, a ridare voce a chi si sente ai margini. Perché l’immobilismo non è solo assenza di movimento: è assenza di speranza. E io credo ancora nella speranza come atto di resistenza.
In un brano come “Tutto quello che vuoi” c’è un’ironia amara. Usi spesso l’ironia per denunciare?
Sì, l’ironia è una lama sottile.
Mi serve a dire l’indicibile senza diventare didascalico.
In Tutto quello che vuoi c’è la stanchezza di chi ha dato tutto e si sente rispondere con slogan vuoti, promesse da supermercato.
L’ironia, se ben dosata, apre varchi: ti fa ridere, ma poi ti lascia un nodo in gola.
È una forma di sopravvivenza e, a volte, l’unico modo per non diventare cinico.
Come immagini una rinascita, individuale o sociale, in un contesto come quello che descrivi?
La immagino come un ritorno alla verità.
Una verità nuda, senza filtri. La rinascita non è una festa, è una presa di coscienza. È guardarsi allo specchio e decidere di non mentire più.
A livello sociale, credo serva ascolto, cultura, empatia. Ma anche rabbia sana, quella che smuove, che non si accontenta.
Rinascere è rischiare. È scegliere ogni giorno di non adattarsi al silenzio.
E io, con la musica, provo a farlo: a lasciare un piccolo segno, una voce accesa contro l’oblio.