Con il nuovo disco Barriere, LaFabbrica costruisce un racconto corale che affonda le mani nella realtà frammentata e soffocante del presente. Un’opera che non si limita a descrivere ostacoli sociali, economici e personali, ma li trasforma in materia viva, capace di generare resistenza e consapevolezza. L’età, il lavoro, la politica, la famiglia, la guerra: ogni tema viene affrontato con lucidità e urgenza, mettendo al centro una generazione ai margini, sospesa tra sopravvivenza e desiderio di vivere pienamente.
Il disco dà voce a chi si sente escluso, oppresso o intrappolato in una quotidianità che non ha scelto, offrendo uno spazio emotivo in cui la fragilità diventa premessa di rinascita e la fatica si trasforma in forza. Senza mai cercare scorciatoie consolatorie, Barriere si fa atto politico e umano, invitando all’ascolto del disagio come forma di empatia collettiva.
Ne abbiamo parlato direttamente con la band, in un’intervista che attraversa i significati più profondi del disco.
“Dopo tutto sono io” è il brano che più di altri parla di fragilità e rinascita. Come lo inserite nel racconto complessivo del disco?
“Dopo tutto sono io” è uno dei momenti più intimi del disco, uno spazio di sospensione in cui ci si concede di guardarsi dentro senza filtri. Lo inseriamo come tappa fondamentale nel racconto complessivo perché invita ad accogliere le fragilità come punto da cui può partire una rinascita autentica. In un disco che affronta molteplici “barriere”, è un brano che descrive quelle interiori, forse le più difficili da superare.
In “Nella tua testa” affrontate la solitudine di una routine non scelta. Quanto c’è di autobiografico in questo brano?
Sicuramente c’è qualcosa di nostro, ma crediamo sia una sensazione che accomuna tante persone. Volevamo raccontare il senso di vuoto che può nascere da una routine imposta, da giornate che si somigliano tutte e che lasciano poco spazio per esprimersi davvero, incastrati in un ritmo che non abbiamo scelto, ma che continuiamo a seguire per necessità. Il brano diventa una sorta di specchio che racconta qualcosa che viviamo ma che riconosciamo anche negli altri.
“Barriere” non propone facili soluzioni, ma invita ad ascoltare il disagio. È una forma di empatia musicale?
Sì, in un certo senso potremmo definirla così. Non abbiamo mai cercato di dare risposte o semplificare la complessità delle emozioni che attraversano il disco. Abbiamo preferito raccontarle per quello che sono, cercando di creare uno spazio di risonanza in cui l’ascoltatore potesse riconoscersi.
A chi è dedicato questo disco? C’è un destinatario immaginario o reale dietro queste canzoni?
Questo disco è dedicato prima di tutto a noi stessi. È il frutto di un percorso lungo e spesso in salita, la materializzazione del nostro impegno e della nostra capacità di resistere. Allo stesso tempo, è anche destinato a chi condivide quella stessa fatica, a chi ogni giorno prova a restare in piedi nonostante tutto.
Dopo averlo completato, che tipo di effetto ha avuto “Barriere” su di voi come band e come persone?
È stato un lavoro intenso che ci ha cambiati, un viaggio di crescita sia musicale che personale che ha portato noi tutti verso un nuovo punto di partenza. Riflettendoci, ha lasciato addosso la sensazione di aver dato voce a qualcosa di necessario, dal quale sono emerse nuove sfumature della nostra identità artistica e umana.