I Monkeys from Space sembrano pazzi, ma sanno esattamente cosa stanno facendo. Blues Elettro Rituale apre come intro da set psichedelico. Banana sattva è un trip esotico con un groove che ti entra in testa e non ti molla. Dojo Song è pura follia cosmica tra riferimenti zen e bassline funk: Gen Z meets Kung Fu. Prometeo è il pezzo "serio", con suoni mastodontici e un testo che è un pugno nel fegato (letteralmente). Elephant Foot è radioattiva e granitica, roba che ti spezza i timpani. Call the Police sembra una scena tagliata da “Milano calibro 9”, con un beat tamarro al punto giusto. Glacier 51 è la più chill, ma anche la più triste. Il finale con Free Your Mind è quasi spirituale, ti lascia stranamente bene. Disco assurdo, ma spacca.
L’album parla di distruzione e rinascita. Che visione
avete del ciclo vita/morte in musica?
Per noi il ciclo vita/morte in musica è come un’onda gravitazionale: ti travolge, ti frantuma, e poi ti ricompone in una forma nuova. La distruzione è necessaria, quasi sacra. Quando qualcosa muore lascia spazio al vuoto, e quel vuoto è il campo da gioco della creazione.
“Free Your Mind” invita a guardare oltre l’apparenza.
È un invito filosofico o personale?
Ci piace pensare che esista una realtà profonda nascosta in piena vista in mezzo al rumore della vita di tutti i giorni e occultata dal perverso flusso delle apparenze. Una realtà raggiungibile attraverso il sogno, quando il velo che la copre viene fatto scivolare via ed essa può mostrarsi nella sua limpida semplicità. È la via dei mistici antichi, degli asceti e di Carl Gustav Jung, tante voci che ribadiscono la stessa verità: “apri la tua mente”.
La distopia che raccontate è più sociale o
esistenziale?
È entrambe, ma se dobbiamo scegliere… diremmo esistenziale travestita da sociale. La distopia che raccontiamo parte dal dentro, dal corto circuito interiore dell’essere umano che non riconosce più sé stesso, e poi si riflette fuori. Non ci interessa la critica politica. Preferiamo raccontare il disagio di esistere in un sistema che ti rende spettatore della tua stessa alienazione. È da lì che parte la vera distopia. Ed è da lì che, forse, può nascere qualcosa di nuovo.
Cosa rappresenta per voi la “scimmia mutante in
preghiera” evocata nei brani?
È un po’ il nostro santo patrono spaziale. Un mix tra Darwin in acido e un guru disadattato su una luna deserta. La vediamo come il simbolo perfetto di questa specie che si è evoluta abbastanza da inventarsi mille sovrastrutture per comunicare, ma non abbastanza consapevole da capire cosa farci con la solitudine.
È mutante perché ormai siamo tutti un po’ glitchati, un po’ fuori fase, geneticamente confusi. Ed è in preghiera perché, nonostante tutto, qualcosa dentro di noi spera ancora che un Wi-Fi cosmico ci ascolti. Nei nostri brani compare come una specie di mascotte esistenziale: non salva, non parla, non giudica. Sta lì, inginocchiata davanti a una lavatrice rotta o a un sintetizzatore impazzito, sperando che il beat riparta. In fondo, chi non si è mai sentito così almeno una volta?
Vi sentite più osservatori critici o narratori
visionari?
Dipende da quanta birra è rimasta nella stazione orbitante! A parte gli scherzi: non ci interessa salire in cattedra, cerchiamo visioni e da lì tiriamo fuori storie che sembrano sci-fi ma che parlano di adesso. Di te, che scorri il feed alle 3 di notte, o di cosa succede al tuo apparato cognitivo quando schiacci “salta l’intro” nell’ennesimo puntata di una serie tv su qualche piattaforma, o di noi che parliamo con un vocoder perché è più facile che dire le cose in faccia. Non ci basta guardare il mondo a pezzi: vogliamo immaginarne uno parallelo, fatto di satelliti rotti, amori radioattivi e scimmie in preghiera. Visionario sì, ma con i piedi ben piantati nei detriti. E se ogni tanto ci scappa una profezia… beh, è solo perché le distorsioni sanno leggere il futuro meglio dei tg.
Per noi il ciclo vita/morte in musica è come un’onda gravitazionale: ti travolge, ti frantuma, e poi ti ricompone in una forma nuova. La distruzione è necessaria, quasi sacra. Quando qualcosa muore lascia spazio al vuoto, e quel vuoto è il campo da gioco della creazione.
Ci piace pensare che esista una realtà profonda nascosta in piena vista in mezzo al rumore della vita di tutti i giorni e occultata dal perverso flusso delle apparenze. Una realtà raggiungibile attraverso il sogno, quando il velo che la copre viene fatto scivolare via ed essa può mostrarsi nella sua limpida semplicità. È la via dei mistici antichi, degli asceti e di Carl Gustav Jung, tante voci che ribadiscono la stessa verità: “apri la tua mente”.
È entrambe, ma se dobbiamo scegliere… diremmo esistenziale travestita da sociale. La distopia che raccontiamo parte dal dentro, dal corto circuito interiore dell’essere umano che non riconosce più sé stesso, e poi si riflette fuori. Non ci interessa la critica politica. Preferiamo raccontare il disagio di esistere in un sistema che ti rende spettatore della tua stessa alienazione. È da lì che parte la vera distopia. Ed è da lì che, forse, può nascere qualcosa di nuovo.
È un po’ il nostro santo patrono spaziale. Un mix tra Darwin in acido e un guru disadattato su una luna deserta. La vediamo come il simbolo perfetto di questa specie che si è evoluta abbastanza da inventarsi mille sovrastrutture per comunicare, ma non abbastanza consapevole da capire cosa farci con la solitudine.
È mutante perché ormai siamo tutti un po’ glitchati, un po’ fuori fase, geneticamente confusi. Ed è in preghiera perché, nonostante tutto, qualcosa dentro di noi spera ancora che un Wi-Fi cosmico ci ascolti. Nei nostri brani compare come una specie di mascotte esistenziale: non salva, non parla, non giudica. Sta lì, inginocchiata davanti a una lavatrice rotta o a un sintetizzatore impazzito, sperando che il beat riparta. In fondo, chi non si è mai sentito così almeno una volta?
Dipende da quanta birra è rimasta nella stazione orbitante! A parte gli scherzi: non ci interessa salire in cattedra, cerchiamo visioni e da lì tiriamo fuori storie che sembrano sci-fi ma che parlano di adesso. Di te, che scorri il feed alle 3 di notte, o di cosa succede al tuo apparato cognitivo quando schiacci “salta l’intro” nell’ennesimo puntata di una serie tv su qualche piattaforma, o di noi che parliamo con un vocoder perché è più facile che dire le cose in faccia. Non ci basta guardare il mondo a pezzi: vogliamo immaginarne uno parallelo, fatto di satelliti rotti, amori radioattivi e scimmie in preghiera. Visionario sì, ma con i piedi ben piantati nei detriti. E se ogni tanto ci scappa una profezia… beh, è solo perché le distorsioni sanno leggere il futuro meglio dei tg.